PRESENTAZIONE

DALLA PRESENTAZIONE DI MONS. GIUSEPPE CREMASCOLI

L’amore di Bruno Pezzini per il dialetto, lingua dei padri e tabernacolo della loro fantasia e saggezza, è ben noto, ed ha dato, come frutto, il Dizionario stampato nel 1998, in un volume in cui si trovano anche modi di dire, note di grammatica, un elenco di lemmi in lingua italiana resi in dialetto, un rimario e una piccola antologia con una composizione poetica, del Pezzini stesso, sul presepio. La consultazione di questi testi documenta, fra l’altro, la gran varietà del lessico e della morfologia nell’uso del dialetto, e del resto è ben noto che in rioni quasi contigui i parlanti si esprimono in modi anche sensibilmente diversi.

Il volume che ho il piacere di presentare accoglie brani dei quattro vangeli, disposti in una trafila in cui è evocata tutta la vicenda del Redentore, dall’Incarnazione alle apparizioni del Risorto.
Sentire la vicenda umano-divina, di cui dicono i vangeli, narrata nella lingua che ho appreso agli albori della vita e specchio del mondo in cui mi sento immerso anche quando ne sono fisicamente lontano, è, per me, un’esperienza di straordinaria dolcezza, un modo speciale di avvertire la realtà di Dio, descritta con parole, frasi e metafore particolarmente amate, perché scolpite nell’anima sin dalla prima età. Un’esperienza simile – e di maggiore intensità – è stata certamente vissuta anche da chi ha preparato il volume, in pagine scintillanti nell’evocare dati di fede e di vita, nate da un forte vincolo dell’anima con il testo divinamente ispirato, ricondotto a un lessico e a stilemi di grande freschezza e spontaneità.

Ciò si nota già dall’impianto dato al discorso ed alle varie fasi della narrazione, come pure dagli accorgimenti che ne assicurano un piacevole e ben graduato svolgersi. Per questo, nell’annuncio della nascita di Giovanni (Lc 1, 5-25), il racconto dell’apparizione dell’angelo a Zaccaria incomincia con un «vegn che ghe cumparìs davanti un angiul del Signur», che dà alla pagina il sapore tipico delle narrazioni come era l’uso dei nostri padri. Una pioggia di eufemismi e di notizie indicate per cenni scende anche sui versetti evangelici che narrano la nascita del Battista e del Redentore, utilizzando, sul tema, il linguaggio dolce e sfumato della parlata in dialetto, come un tempo era universalmente diffusa. Per dire della «vergine, promessa sposa a un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe» (Lc 1, 27), leggiamo di «una fiöla, che la ghe parleva a un om de la casa de Davide, che ‘l se ciameva Giuseppe». La Natività sta per compiersi, perché «l’èra rivad per lé el temp de malàs» (si compirono per lei i giorni del parto: Lc 2, 6), secondo il piano divino di cui l’angelo aveva detto nell’Annunciazione, ricordando il prodigio avvenuto in Elisabetta, avanti negli anni ma «già de ses mesi» (Lc. 1, 36), portando in grembo il Precursore.

Il ricorso a metafore di grande fascino nel nostro dialetto si nota in tanti altri punti della versione, così da scolpire, con dei simboli, l’essenza di certi eventi o per esprimere verità di fede e annunci divini. Nella pagina di Matteo che narra della crudeltà di Erode, c’è il passo in cui si dice che il tiranno «el s’é acort che i Magi l’évun fài sü», cioè che si erano presi gioco di lui (Mt. 2, 16), avvertiti dall’angelo del Signore. Sempre in Matteo il racconto del battesimo di Gesù riferisce della voce del Padre, che dice, del Figlio: «in lui mi sono compiaciuto» (3, 17), cioè «in lü mi me spegi», accostando, così, l’evento divino a sentimenti ed esperienze umane, con la frase un tempo in uso per esprimere l’indicibile felicità dei genitori che sentivano la loro stessa vita palpitare in quella dei figli.

Momenti di scintillante espressività si notano anche nella scelta di tipici vocaboli ricchi di senso e di fascino. I pastori accorrono senza indugio (Lc. 2, 16), cioè lüghìdi, al Presepio, obbedendo all’annuncio degli angeli. La cattura del Salvatore avverrà con l’arrivo di una gran folla (Mt 26, 47), cioè di «una maramàia armada de spade e de baston», inviata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo, gli stessi che a Giuda, ormai conscio di aver «tradito sangue innocente» (Mt 27, 4), diranno «rànget», parola, nei loro intenti, magica e risolutiva, tale però da rendere più grave la già commessa iniquità. I discepoli di Emmaus, emblema di tanti cristiani nel corso dei secoli, procedono «col volto triste» (Lc 24, 17), sono cioè «tüti scamüfi», prima di riconoscere il Signore «da cume l’ha
ŝnisàd el pan», cioè «nello spezzare il pane» (Lc 24, 35).

In altri casi il fascino dell’espressione è testimoniato, più che da singoli vocaboli, da modi di dire del dialetto adattati a vicende dei vangeli, che risultano così, alla fine, ancora più amabili per il lettore. A Gesù ritrovato fra i dottori nel tempio, la madre dice: «Figlio, perché ci hai fatto così?» (Lc 2, 48), reso con: «Fiöl, perché te g’hé fài una roba pària?», suscitando nel lettore una tenerezza infinita al ricordo di questa e di simili frasi con cui le madri di un tempo esprimevano, nonostante tutto, l’impeto degli affetti verso le loro creature. Di popolana schiettezza traboccano certe frasi con le quali diventano familiari e vicini anche dei passi evangelici redatti, per noi, non senza difficoltà. Questo si verifica quando i messi, inviati per conoscere la missione e l’identità del Battista, chiosano così la serie di domande, di affermazioni e di smentite di cui in Gv 1, 19-21: «In tutale, se pöd savé chi l’è che te sé?».

Di tenerezza e di affetto sono intrise soprattutto certe frasi dette a conforto degli apostoli, come nell’ultima cena, nell’imminenza, per il Redentore, di essere consegnato e tradito. In quell’ora di angoscia e di amore, Gesù li esortò a non sentirsi turbati nel cuore ed a conservare la fede nel Padre e in lui (Gv 14, 1): «Crüsiéves no nel vòster cör. Credì nel Signur e credì in mì». Poco prima, sempre nell’ultima cena, dando l’addio agli apostoli il Signore aveva ribadito l’essenza del suo messaggio ricordando il precetto del vicendevole amore (Gv 13, 34): «vuréves ben de vün cun l’alter».

Un tuffo nel passato sono i passi in cui vengono indicati, nella versione, utensili e arnesi assai familiari un tempo, ben noti, in quegli anni, nella realtà e nella denominazione. Per scuotere gli spiriti e condurli alla conversione, il Battista ricorda che «già la scure è posta alla radice degli alberi» (Mt 3, 10 e Lc 3, 9), cioè che «a la radi
ŝ de le piante gh’é già pugiàd el sigürìn». Nell’ultima cena il Signore volle esprimere il senso profondo del suo messaggio quando «cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto» (Gv 13, 5), cioè «cul salvietón che ‘l g’ha in vita».

Leggere il Vangelo del Signore nella lingua della mia infanzia, nella quale ancora oggi sento nascere i pensieri che più amo e custodisco in me, è un’esperienza di straordinaria felicità e dolcezza, alla quale mi sono abbandonato con intensità di ricordi e di affetti. Sento che Bruno Pezzini ha preparato il testo con gli stessi ed anzi ben più alti sentimenti. Il dialetto che accoglie e trasmette, in questo volume, la vicenda e il messaggio del Signore, è stato, in fondo, il tramite della fede e di tanti valori per noi, attraverso l’incanto di un mondo semplice e vero da cui, per forza, siamo usciti, conservandone però un ricordo dolce e indelebile.

Non sappiamo in quale lingua si parlerà in questa nostra amata terra nei secoli che verranno (se verranno). Voglia Iddio che essa sia in grado di scolpire nelle anime il messaggio del Signore, come è avvenuto per noi e per i nostri padri, nei secoli ormai trascorsi.

Giuseppe Cremascoli

Bologna, Università degli Studi, il 14 settembre, festa dell’esaltazione della santa Croce, nell’anno del Signore 2002



DA UNA RECENSIONE

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.E' un doppio atto di fede quello che Pezzini affida ad una trama rispettosa delle concordanze presenti nei testi di Matteo, Marco, Luca e Giovanni.....
Pezzini ha scandagliato "i più intimi significati delle parole che compongono il messaggio evangelico". E ha cercato di riproporli col suono e l'atmosfera di un dialetto che a Lodi era sulla lingua di tutti una quarantina d'anni fa...
Quello [il dialetto] che con la sua immediatezza e duttilità si è calato nella Buon Novella è però destinato a sopravvivere, se non altro come rigoroso documento storico e come strumento creativo....

"Il Giorno", recensione de El Vangeli del Signur
Beppe Cremaschi (2003)